Red Cliff

John Woo maestro dell’azione? Red Cliff, epopea epica di un’età eroica che esalta il rango e il gesto dell’individuo eccezionale?

Anzittutto, l’eroe si staglia sempre – come un bassorilievo – dallo sfondo delle masse in movimento; il gesto si stacca dal movimento delle masse e l’atto eroico è sempre subordinato all’azione storica, alla difesa della ritirata dei contadini profughi («Non opprimete i deboli che non hanno né padre né figli», Hung-Fan). Perfino, il sacrificio (quello del generale Gan Xing , che si fa esplodere nello slancio, o di Xiao Qiao, la bellissima moglie  del vicerè Zhou Yu (Tony Leung) che devia e differisce l’azione del primo ministro), si inscrive coerentemente nella logica del collettivo.

Red Cliff
Red Cliff di Jhon Whoo – Credits: YouTube @Magnolia Pictures & Magnet Releasing – Lafuriaumana.it

Le élitès palaziali (non mancano big men né dimore principesche) non si rinserrano nel chiuso inaccessibile di un megaron o di una città proibita («Non temete coloro che occupano un rango elevato o che sono notabili. Il popolo è come la costellazioni condotte dal sole. Talune amano il vento, altre la pioggia. Il sole e la luna compiono le loro rivoluzioni riconducendo (successivamente) l’inverno e l’estate. La luna percorre le costellazioni. Così il sovrano e i ministri devono provvedere ai bisogni del popolo e alla soddisfazione delle aspirazioni legittime», Hung-Fan). Zhou Yu e i suoi generali tigre si mettono in mezzo (curano i malati, insegnano a scrivere ai bambini), mischiandosi nella moltitudine, per scaturire, con rilievo, solo da essa, come nella scena della tattica a testuggine o, ancora prima, in quella degli specchi ustori.

Jhon Woo mette in scena l’azione con Red Cliff

La raffigurazione coreografica di Woo esprime una poetica che slarga la più semplice politica dell’eroe, che celebra il gesto sempre come virtù, raffigurando gli scontri in quanto fregi che illustrano avvertimenti e ammonimenti (certo non sulle nozze sbagliate – come la celebre Olpe Chigi greca – poiché la moglie del vicerè, non è Elena – e la Cina non è la Grecia). «Una buona amministrazione stabilisce, alle epoche volute, la serenità del Cielo…; ma l’arroganza provoca piogge ininterrotte…», (Hung Fan): è il primo ministro che, con le parole di Sofocle, non rispetta le leggi della patria e del cielo, mandando in rovina la sua città per orgoglio.

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L’azione sulla scena secondo Jhon Whoo – Credits: YouTube @Magnolia Pictures & Magnet Releasing – Lafuriaumana.it

La messa in scena è puntata sull’antagonismo delle forze collocate in direzione opposta o contrapposta, sponda contro sponda (lo Yin e lo Yang, la dualità primordiale che informa tutta la realtà): mentre da un lato si celebrano i riti funebri per i nemici morti di tifo, dall’altro si festeggia e gozzoviglia nonostante la morte degli amici; Cao Cao fa retorica con le sue composizioni eccitando (e non educando) le masse ridotte a pubblico, mentre Zhou Yu (Takeshi Kaneshiro) e Zhuge Liang suonano, con intensità, nell’intimità domestica, mentre Xiao Qiao (Chiling Ling) prepara il tè – che (nella versione lunga o doppia Cao Cao, nonostante diverse occasioni, non sa o può gustare). Se nel fronte dei Regni del Sud gli eroi possono profilarsi come figure su sfondo, in quello contrapposto del primo ministro nessuno può risaltare per il gesto o il coraggio, poiché tutti sono sottomessi e nessuno è motivato – profilato.

Ma questa spazializzazione geometrizzante, questo dispositivo, informa solo la struttura denotativa dell’opera: l’azione e l’opposizione incardinate nello schema geometrico. John Woo infatti esibisce, con i suoi insistiti e intensi, danzanti e vertiginosi primi piani, momenti in cui prende tempo, respira, coglie l’attimo sospeso, l’esitazione, il pensiero, il palmo del riposo, l’intimità della camera (dove suonano viceré e stratega), tutta una volontà di fermare quel momento che si annoda con il movimento per creare un ritmo che, certo, è suo peculiare, ma che, soprattutto, è un’immagine liberante, come la colomba bianca che supera la flotta di Cao Cao.

Non solo la potenza formale (il gesto dell’eroe, le scene di massa) si coniuga con un’intima grazia (le cerimonie del tè, le tenerezze fra il vicerè gentile e la sua sposa bella e buona – virtuosa): spirito eroico e sentimento (se non grazia), azione e pathos. Non solo l’uomo, questi uomini, questi eroi, non vengono raffigurati semplicemente nella loro essenza fisica (eroica), colti ed esauriti nel gesto o come corpi che dispiegano la loro forza nell’azione, ma – come in The Killer, Windtalkers o Paycheck – sono esseri pensanti, al centro di grandi imprese su cui incombe il peso del destino e del conflitto interiore o del dubbio: dramma tragico e dimensione spettacolare. C’è qualcosa di più alto e di altro rispetto all’azione epica o al supposto pacifismo del film.

La cerimonia del tè

Red Cliff non è paragonabile all’Eirene (pace) dello scultore tardo-classico Cefisodoto, posta nell’Agorà ateniese nel 386 a.C., in occasione della Pace del Gran Re persiano. La donna, moglie e madre (gravida del figlio del vicerè), iconograficamente ricorre e raccorda la statua e il film, ma in un caso testimonia del valore che gli ateniesi vogliono innalzare – quello della pace e del desiderio di ideali ben terreni – mentre nel secondo, il film di Woo, c’è in gioco il superamento nientemeno che della cartografia metafisica occidentale – che proprio in Grecia si dischiude. Come l’Eirene, così la viceregina custodisce una ricchezza, un tesoro, la pace (che è il nome che lei ha scelto per suo figlio), l’aspirazione concreta della vita di tutti i giorni, il suono di un flauto, il paziente esercizio calligrafico, l’ascolto della pioggia, la visione di una scogliera, la preparazione del tè. Certamente, ma il parallelo non può che arrestarsi su questo punto tutto sommato secondario, perché la pace nel film di Woo non è il fine, semmai una conseguenza o implicazione.

Il punto nodale e dirimente, anche rispetto alla cultura dei greci (la Cina, si diceva, non è la Grecia e questo film non è epico), è il tè. Sopra la pace, per Woo e la cultura cinese, c’è un valore, anzi, un’esperienza ancora più alta, che si accompagna a disinvoltura e gravità, fermezza e decoro, semplicità e padronanza, le virtù di Zhou Yu e dello stratega incarnate già nella loro postura. È la virtù cinese – la gentilezza – che se coltivata, con calma e sicurezza (mentre Cao Cao declama poesie come un istrione) libera proprio dall’azione – e dalla guerra.

Il bagno di sangue purga l’azione, il gesto, l’affaccendarsi distratto che dirotta l’attenzione dell’uomo comune e dell’“eroe”, liberando il Te (la virtù taoista che non agisce e non persegue alcune fine, a differenza della “virtù” comune che si agita per tendere ad un obiettivo: la conquista dei Regni del Sud). Ma ancor di più è il , la cerimonia del tè, ciò che redime, nel pieno delle battaglie e dei corpi aggrovigliati, aprendo il vuoto che a sua volta consente il manifestarsi dell’inazione: questa, è la virtù superiore per i cinesi e per John Woo che gira un film storico, in costume, “tradizionalista”, che profonda le sue radici nell’humus culturale cinese, nella Cina del bambú e della seta (materiali per scrivere), dei Tre culti (confucianesimo, buddismo, taoismo) e delle Nove scuole. Il che non significa che occorre afferrare il contesto storico a partire dalle fonti o analizzare la sceneggiatura o, ancora, il romanzo da cui è tratto il film, perché il “contenuto” non solo sostanzia ma si manifesta nelle forme plastiche del film – esemplarmente ma non retoricamente – né, tantomeno, che occorre ricorrere a qualche oziosa ipotesi (supposta) esplicativa di una lontana impregnazione del cattolico Woo di provenienze di epoche ancestrali: qui, nell’intensità dell’immagine, c’è in gioco, semmai, l’attualità (fenomenologica) degli archetipi, non un immaginario ancestrale o psicologico.

La regia di Woo, pertanto, non si limita al dispiego del potenziale della retorica del segno filmico (livello denotativo) ma, al livello connotativo, opera artisticamente una disgiunzione, introducendo una distanza fra il gesto o il segno (che appare denotativamente e su cui quasi sempre ci si sofferma a proposito della supposta epicità dell’opera) e il valore che porta in grembo (connotativamente) come un tesoro nascosto da scoprire e accudire: non la pace, ma, sopra di essa, la meditazione che libera da qualsiasi azione e, quindi, anche dalla guerra.

La cerimonia del tè infatti stordisce il prevaricatore, immorale e indaffarato Cao Cao, la cui colpa sta anche nella sua distrazione, mentre il filosofo della natura Zhuge Liang osserva e vede, quindi può leggere i segni del cielo e ribaltare le forze in campo: Cao Cao è tutto chiuso nella sua “armatura”, dimentico, nei suoi piani di invasione, della ricchezza (e imprevedibilità) del mondo nei suoi diecimila esseri (vittima della teoria del sorvolo, della rappresentazione, dell’astrazione, ma in Cina la conoscenza è pratica, esperienza, non teoria); Zhuge Liang invece ha un’attenzione concentrata sulla puntualità dell’esperienza che accade, un’attenzione pratica, che lo stratega pratica come non ostruzione, poiché il mondo può venire incontro non solo come impasto di corpi o porzioni di spazio da conquistare, ma in quanto configurazione e coaguli di figure, intreccio di linee, scogliere, suoni, profumi, lentezze – come nella scena in cui il bambino con il suo flauto in-canta i soldati che si addestrano e azzuffano nella polvere, sospendendo l’azione e liberando il pensiero di vicerè e stratega.

Alla fine, lo dice il vicerè: qui non vince nessuno. Ma non è semplice pacifismo. Si è sconfitti fintanto che non ci si affranca dall’azione, nella meditazione, che è attenzione reiterata che torna sul punto, sul vuoto, un atto che non mira affatto ad impossessarsi di qualcosa (come nel caso di Cao Cao). Il tè – che il Tony Leung ammira e di cui il primo ministro non comprende la complessità, il mistero, l’essenza – esibisce questo vuoto, il vuoto del gesto: una forma estrema di dépense. La preparazione degli strumenti, l’ascolto della bollitura dell’acqua, la degustazione, la lentezza. Questa azione non ha alcuno scopo, è una cerimonia che non è mai mezzo o strumento, non è una cosa da vedere o afferrare (il primo ministro, di fronte alla maestria di Xiao Qiao, è solleticato solo da curiosità).

È il sogno di Zhou Yu, un modello da diventare, una disciplina etica ed estetica che immerge nel silenzio e smarca dalla disattenzione febbrile che sempre accompagna l’agire quotidiano e la gestualità, compresa quella “eroica”. Questo sogno è una rêverie: il guerriero, appena può (come nella scena del flauto suonato dal bambino) fugge davanti all’oggetto vicino (le sue truppe che si addestrano) e improvvisamente si trova lontano, altrove, gettato nel mondo, nelle sue immensità, attraverso la meditazione, nell’immobilità che marca la sua postura, nello sguardo che oltrepassa il mondo visto così come esso è: il mondo diventa uno stato d’animo. Questa intensità rivela l’immagine, attualizzando l’archetipo di una immaginazione liberante, in forza della quale nel cuore del guerriero e dello spettatore scoppia il canto di grazia dell’universo, a patto che si sappia liquidare il complesso spettacolare, così come il vicerè annienta i conglomerati di Cao Cao. (Diceva Godard: si deve fare quel che si vuole per mezzo di quello che si può – e i mezzi di Woo e del cinema, americano o cinese, oggi, sono anche questi.)

Questo, più che il figlio che porta in grembo, è il dono prezioso che custodisce Xiao Qiao: la preparazione del tè. John Woo maestro della meditazione – e maestro del tè: artista della rêverie.

Beninteso: non è poi tanto pertinente ostinarsi nell’identificazione delle provenienze o nella descrizione delle radici (il cattolico Woo che ritorna a casa, ecc.) – sebbene un film, in quanto figura o espressione, certamente, nel suo testo, esprime anche queste provenienze e radici, che, quindi, contribuiscono a determinarne la fattura. Ma, insistere sulle radici e le provenienze, può motivare una lettura che liberi il film dall’ipoteca della categoria (occidentale) dell’epica. Questo film, contrariamente a quel che si dice, non ha una testa epica – per citare un’espressione di Roger Tailleur a proposito di John Ford. L’equivoco, probabilmente, nasce dall’ipostatizzazione di alcuni contenuti o  unità di contenuto informanti della  trama del film.
Non è un’opera omerica, non solo perché (comunque) profondamente cinese. Semmai, per rimanere nel campo semantico delle categorie occidentali, potrebbe essere un’opera epica mediata attraverso la lezione di Esiodo. Nonostante la guerra, che riempie le immagini del film, il lato Iliade è meno importante dell’aspetto Odissea. Il riferimento, insomma, è a John Ford. Più che alla Storia con la S maiuscola, quella che passa sopra la testa degli uomini, Ford è sempre interessato alla storia degli uomini e alla loro vita quotidiana o, meglio ancora, agli uomini e alle loro storie, celebrando sia le tradizioni che lo splendore del mondo.

E, poi, l’eroe greco satura la propria presenza nel ruolo, compiendo il proprio destino, adempiendo alla situazione a cui è stato chiamato, non lascia ombra, è un attante, il che non si può dire del sergente Nicholas Cage in Windtalkers né dello stratega di Chi bi.

Al limite, il riferimento può essere proprio all’altro war movie, Windtalkers, che esibisce molte di queste suggestioni improvvise che interrompono la continuità dell’azione e di cui l’incipit di nuvole e rocce ricorda quello fondamentale di Chi bi: canto fordiano della creazione permanente (e sappiamo quanto sia importante l’inizio del film per la sua densità significativa e per la sua funzione di esplicazione – in quanto fenomeno di inaugurazione).

Immaginazione della Creazione, sinfonia di un vento eterno, pre-umano, che respira nel moto delle cime attorno alle quali danzano le nubi. Burroni che, come nella Monument Valley di Windtalkers, separano dalle morali e dalle città.

Ma c’è, infine, ancora un altro nodo – ancora più generale – che fa problema e articola questa lettura del film – che per il fatto che presenta un’immagine aberrate (spettacolare, tecnologica) di per sé non significa che sia artificiale. Un’immagine generale, che non è un’idea generale, ma l’essere dell’immagine, la sua intensità – quantomeno in questo prolungamento esagerato o lettura del film che rifugge dalla riduzione riflessiva. E cioè che Cao Cao parte male e si appoggia ad esperienze solo schematiche (le sue carte) o “geometrizzanti”.

Quando dico che mi sembra profondamente cinese, o, meglio, orientale, intendo dire che supera la geometrizzazione, la contrapposizione spaziale, perfino l’antagonismo degli schieramenti geometricamente fissati, proprio perché questa cartografia geometrizzante riduce o cancerizza la realtà dei diecimila esseri – e questo è destinalmente occidentale. Su entrambi i fronti – complementari – c’è una sintassi che li lega, a dispetto della rivalità, che salda gli uni agli altri anziché slegarli, come nella scena del bambino che suona il flauto che ha il dono o il potere di spezzare questa grammatica. Nessuno si concede il tempo di pensare, cioè di interrompere questa lingua della fissazione, questa spazialità rigorosamente strutturata e conflittuale (lo schema a testuggine, la flotta di Cao Cao con le navi agganciate le une alle altre). Eccettuato lo stratega che, infatti, sa leggere i segni del cielo, la mobilità delle nuvole e sa pure far partorire una cavalla (questo lo si vede in Chi bi). Questa spazializzazione che il film supera – sebbene con momenti fugaci, con queste colombe che sorvolano i conglomerati, i blocchi, ma ben esibiti. Una logica spaziale, una logistica tipica dell’Occidente: la metafisica che designa solo in quanto di-segna, che fissa, localizza, mentre lo stratega, e pure il vicerè nei suoi sogni (anzi nelle sue rêveries d’infinito), per avanzare girano su loro stessi, come nella danza vorticosa dei primi piani in piano sequenza che Woo orchestra in Chi bi xia avvolgendo proprio questi due personaggi.

Allora si può forse dire che la battuta finale (“Dall’unione nasce la divisione”), e soprattutto l’immagine finale (il distanziarsi dei due amici, più che alla formula di Mao, rinviano allo slegarsi (il volo della colomba) degli uni rispetto agli altri, contro la fissazione: l’essere dell’uomo è un essere defissato (G. Bachelard).

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