Con la morte di Aloysio Raulino nell’aprile 2013, il Brasile ha perso non solo uno dei suoi migliori direttori della fotografia, ma anche uno dei suoi registi più creativi.
Sebbene abbia prodotto i suoi film principali negli anni ’70, uno dei periodi più produttivi della storia del cinema brasiliano, Raulino è rimasto, almeno come regista, un marginale tra i marginali.
Ancora oggi è difficile avere accesso ai suoi film e sono poche le opere e i saggi critici sulla sua opera, che del resto non costituisce un’esclusività nel cinema brasiliano. Se, come direttore della fotografia, il suo nome è diventato ben presto molto noto nella storia del nostro cinema – ha partecipato a lungometraggi come O homem que virou suco (1981), Braços cruzados, Máquinas paradas (1979), O baiano fantasma (1984), O prisioneiro da grade de ferro (2003), Serras da desordem (2006), Os residentes (2010), tra gli altri1 – è solo negli ultimi anni che la sua statura di cineasta e la sua importanza come regista sono aumentate ha vinto il riconoscimento.
Studente della prima classe del corso di cinema all’Università di San Paolo, nel 1970 (dove ebbe come riferimento intellettuale Paulo Emilio Salles Gomes, uno dei più importanti critici brasiliani, biografo, in particolare, di Jean Vigo), Raulino dedicò si è dedicato quasi esclusivamente ai cortometraggi e ha sviluppato una forma molto speciale di film d’autore – che, senza giustificare la mancanza di riscontro ricevuto dal suo lavoro, può essere in parte spiegato con la provenienza da un paese come il Brasile, con poca tradizione nel genere. In verità, i cortometraggi da lui realizzati negli anni ’70 costituiscono una piccola isola nella produzione brasiliana di quel decennio e incarnano una specifica “modernità” all’interno della già avanzata “modernità” dell’epoca, segnata dalla produzione di quella che è stata definita Marginal Il cinema, soprattutto attraverso il lavoro di creatori d’eccezione come Rogério Sganzerla, Júlio Bressane, Carlos Reichenbach, Ozualdo Candeias, tra gli altri.
L’indipendenza di Raulino nella professione
L’agilità e l’indipendenza di Raulino nella professione, la sua indifferenza verso i procedimenti produttivi classici, verso l’idea stessa di “opera”, finirono per fare di lui una sorta di primitivo nella sua arte, nel senso migliore del termine, come se un giovane cineasta degli anni ’20 aveva deciso, a seguito di una lacuna storica, di girare in Brasile negli anni ’70. Spinto da un costante impulso alla ricerca, i suoi film collegano la storia del cinema brasiliano con la migliore tradizione del documentario d’avanguardia degli anni ’20. -anni Trenta, per i quali il cinema restava ancora da scoprire e le cui virtù non erano tanto quelle dell’appropriazione (e perfino del sovvertimento) di schemi narrativi classici quanto quelle dell’invenzione di un nuovo insieme di processi, effetti, sentimenti artistici: un cinema capace di far convergere realismo e surrealismo, costruttivismo e preoccupazione sociale e, soprattutto, passione sovversiva e poesia.
Prendiamo a esempio quello che probabilmente è il suo film più bello: Porto de Santos (Il porto di Santos, 1978). Come negare il misto di sgomento e di gioia che si prova alla vista dei portuali del più grande porto brasiliano ripresi da Raulino in un clima così di fiducia, a quello della giovane prostituta dei quartieri popolari di Santos, o anche a quello di la danza erotica del bandito “Escorregão”, che, secondo lo stesso regista, avrebbe minacciato la troupe nel caso si fossero rifiutati di filmarlo? Come non notare un’affinità con lo sguardo oggettivo e poetico dei primi documentaristi d’avanguardia, Vertov, Cavalcanti, Ivens, e perché no il Vigo di About Nice (1930) – film di fronte al quale Porto de Santos si pone come una sorta di del doppio negativo: stazione balneare delle élite francesi contro i portuali brasiliani in sciopero?
Partendo dalla stessa fonte ma per percorsi diversi – il “punto di vista documentato” – Raulino e Vigo raggiungono risultati semplici e brillanti. E, prima che il paragone possa essere definito assurdo, lasciamo un po’ da parte il canone per guardare questo film di meno di venti minuti, e chiediamoci onestamente se lo stesso Vigo non ne avrebbe riconosciuto l’originalità? Il giovane regista di Zéro de conduit (1933) e L’Atalante (1934) è e sarà sempre l’ispiratore di tutto il cinema libero, poetico, impegnato, gioioso. Porto de Santos, è, per prendere in prestito le parole di Vigo, “Cinema, nel senso che nessuna arte, nessuna scienza può adempiere alla sua funzione”; è anche un cinema “sociale” in quanto “l’obiettivo sarà raggiunto se riusciamo a svelare il motivo nascosto di un gesto, a estrarre da una persona banale e casuale la sua bellezza interiore o la sua caricatura, se riusciamo a svelarne lo spirito di una comunità basata su una delle sue manifestazioni puramente fisico”2.
La modernità
Se consideriamo la “modernità” di Raulino da un’angolazione diversa, e non solo da quella stilistica, possiamo osservare come il suo cinema abbia sempre dimostrato una grande sensibilità verso i personaggi, le agitazioni e le contraddizioni della vita urbana. Molti dei film da lui diretti – Lacrimosa (1970), Jardim Nova Bahia (1971), Porto de Santos, O tigre e a gazebola (La tigre e la gazzella, 1976), Noites paraguaias (Notti paraguaiane, 1982), Inventário da rapina ( Inventory of Rapine, 1986), tra gli altri – e molti di quelli da lui fotografati sono incentrati sull’universo urbano, inteso sia attraverso le particolarissime figure visive e sonore che è capace di creare, sia solo attraverso l’esperienza di vita reale dei suoi abitanti, soprattutto lavoratori, immigrati e tutti coloro che vivono ai margini della società.
L’originalità di Raulino come cineasta (e, in un certo modo, come fotografo, se teniamo conto dei film a cui ha partecipato) consiste nel non disprezzare mai il minimo di questi contributi e nel realizzare un’inaspettata congiunzione tra due gesti in linea di principio contraddittori: un elogio poetico della città e dei suoi abitanti, in parte dipendenti dalle avanguardie degli anni ’20, e una diagnosi risolutamente politica del fallimento del progetto economico di questa stessa modernità, soprattutto per quanto riguarda il suo aspetto capitalista e imperialista. Se è vero che, nella forma, i suoi film ci riportano allo spirito di libera invenzione della prima metà del secolo, il loro contenuto politico è quello di un periodo specifico degli anni Sessanta-Settanta, quello delle guerre anticoloniali in Africa, lotte localizzate contro l’ascesa del capitalismo nel Terzo Mondo e, in particolare, lotte contro le dittature in America Latina. Il suo cinema si unisce così a quello di Glauber Rocha, Santiago Álvarez, Thomas Gutiérrez Alea, Fernando Solanas, tra gli altri – ma conduce l’indagine sulla segregazione economica e sociale verso una dimensione molto più personale e poetica.
È il caso di Lacrimosa e O tigre e a gazebo, che rivelano il talento di Raulino per le soluzioni cinematografiche semplici, nonché per una sorta di “meditazione sull’inaspettato”, qualità primaria del suo stile di cineasta e fotografo. In Lacrimosa, dopo una veloce inquadratura di presentazione, il film si apre con queste parole: “Recentemente è stato aperto un viale a San Paolo”, poi: “Ci costringe a vedere la città dall’interno”. L’auto di Raulino e Luna Alkalay (con cui ha condiviso la regia di diversi film, tra cui questo) si avvia quindi per percorrere l’Avenida Marginal Tietê. Obiettività caratteristica del cinema di Raulino, ma che qui non è seguita come un programma: la macchina da presa esita, lo zoom è incerto, il paesaggio si trasforma rapidamente tra edifici moderni e baraccopoli, il che non fa altro che aumentare, contro ogni previsione, la sensazione dell’inaspettato e la sensazione di urgenza.
Raulino scende dall’auto con la sua macchina fotografica ed entra in una baraccopoli, un piccolo gruppo di baracche circondate da immondizia. È allora che accade qualcosa di indescrivibile e sublime – cosa non rara nei suoi film –: la sua macchina da presa incontra i ragazzi dello slum e scoppiano alcune battute del Requiem di Mozart. Il film, apparentemente semplice e crudo, sboccia poi in una nuova forma, come se la realtà saltasse fuori da sé stessa e dagli abitanti di questo luogo (il bambino con una ferita sulla fronte, la ragazza con un palloncino in testa, l’uomo con una maschera) ci chiama da una terra lontana, come i vinti di un mondo post-apocalittico, in una simultanea evocazione di Las Hurdes (1933) e La Jetée (1962). Quanti registi sono riusciti, con così poche risorse a disposizione, a suscitare sentimenti così contraddittori? E quanti hanno saputo suscitare la nostra indignazione con tanta ferocia senza trasformarla in compassione o pietà? L’immagine della mappa del Brasile, infine, restituisce la realtà del film in uno spazio specifico ed è seguita dai versi di Àngel Parra che incanalano l’estasi delle sequenze precedenti in un messaggio politico estremamente chiaro: “Quisiera volverme noche /para ver llegar el dia /que mi pueblo se standing / buscando su amanecida” (Vorrei diventare la notte / vedere venire il giorno / in cui il mio popolo starà / inseguendo la sua alba).
O tigre e a gazebola
Qualcosa di molto simile avviene in O tigre e a gazebola, quando l’energia della congiunzione rituale tra musica colta e musica popolare, tra volti e danze, si incanala verso un atteggiamento rivoluzionario, simboleggiato dalle parole dello scrittore anticolonialista Frantz Fanon. Undici anni prima, le riflessioni di Fanon alimentavano quelle di Glauber Rocha su “L’estetica della fame”, che cercava di trasporre nel mondo Nel contesto brasiliano alcune delle idee del filosofo sulle lotte anticolonialiste in Africa. In questo processo, la violenza contro il colonizzatore europeo si trasformò in violenza del linguaggio contro il cinema dominante e stabilì quello che Glauber allora sosteneva fosse il progetto estetico e politico del Cinema Novo. L’utilizzo da parte di Raulino dei testi di Fanon non implica un riferimento a questo stesso progetto estetico, ma ha il merito di risvegliare la discussione a metà degli anni ’70 e di ravvivarla nel contesto della lotta per la ridemocratizzazione del Brasile.
Come dice Ismail Xavier, Fanon ha cercato di dimostrare nei suoi scritti la dipendenza reciproca tra la “lotta per la libertà” e la formazione di una cultura nazionale effettivamente viva e vigile. Nel film di Raulino, la fusione dei volti e della musica con le parole dello scrittore francese di origine martinicana rinnova questa articolazione e trasforma il carattere informale della festa, della danza e del canto popolare (e non necessariamente l”immaginazione mitica, come in Glauber ) in un rifugio di insubordinazione e resistenza. O tigre e a gazebo dimostra che Raulino era maestro di un’arte quasi dimenticata: quella di risvegliare la fiducia di coloro che filmava e, soprattutto, di filmarli frontalmente, in modo che la macchina da presa riesca a esprimere la tensione o la gioia del incontrare. Nessuna immagine è più caratteristica del suo cinema di questa illuminazione che deriva dal confronto della telecamera con lo sguardo dei suoi personaggi, un confronto che sembra rivelare l’integrità, la bellezza e l’energia politica che portano con sé.
In questo senso è impossibile non citare i legami tra l’opera di Aloysio Raulino e quella di un altro grande regista della sua generazione, Arthur Omar, soprattutto con la sua celebre serie fotografica Antropologia da Face Gloriosa, un’opera titolo che potrebbe quasi servire a riassumere il lavoro del regista di O tigre e a gazela. Ma più che un confronto tra i film dei due cineasti (che rivelerebbe probabilmente molte più differenze che somiglianze), è interessante notare come entrambi assumano un atteggiamento del tutto personale nella storia del cinema brasiliano, rifiutando la strada del classico ( o sociologico) documentario in nome di una ricerca molto più libera della realtà brasiliana. Questa posizione implica, tra le altre scelte, una predilezione per l’assemblaggio e l’accostamento di materiali eterogenei (musica, documenti, immagini, sculture, ecc.), sebbene in Omar l’assemblaggio di questi elementi sia molto più complesso e che la rinuncia al carattere esplicativo La dimensione del documentario è molto più ironica e consapevole.
Per tutti gli anni settanta e i primi anni ottanta, nei film di Raulino risalta l’agilità e la spontaneità del lavoro, tanto che il corpo a corpo del fotografo con la realtà, senza escluderla, prevale sulla forma più cerebrale del saggio. Quest’epoca coincide anche con il predominio del bianco e nero come opzione estetica, un gesto deliberato di rifiuto dell’imposizione dell’uso dei colori da parte del cinema brasiliano3. A partire dal 1982, qualcosa cominciò a muoversi in questo sistema, quando il cineasta realizzò il suo primo film di finzione, Noites paraguaias e, subito dopo, il mediometraggio Inventário da rapina, film in cui l’opzione per “il ‘saggio'” appare in un modo molto più radicale che in qualsiasi altro suo film. Proprio come O tigre e a gazela, anche Inventário da rapina guarda al processo di ridemocratizzazione del Brasile, che significa non solo la richiesta di apertura politica ma anche qualcosa come una “ridemocratizzazione totale” della società, quando le voci di tutti i suoi emarginati finalmente occupare il primo posto. La ferocia del film precedente lascia il posto a un dramma più onirico, in cui interviene apertamente il gioco con il surrealismo e il simbolismo. In questo lavoro di cucitura della psicologia intima con la “questione nazionale”, Inventário da rapina sembra interrogarsi sul futuro di un nuovo Paese, alla ricerca di un’immagine del Brasile con cui sarebbe ancora possibile identificarsi, senza ricorrere al trionfalismo caratteristico del regime militare.
Il simbolo di un nuovo paese
Come simbolo di questo “nuovo Paese”, Raulino sceglie un’immagine banale e un po’ infantile – potremmo parlare di un’immagine cliché – ma che, nel suo cinema, esplode con singolare violenza: i volti dei bambini. Da Lacrimosa a Inventário da rapina, sono i volti dei bambini a incarnare al meglio questa dimensione utopica di rivoluzione e trasformazione politica, tanto che questi film si offrono come una sfilata di sguardi e volti giovani, spesso già segnati dal segno della povertà e della marginalità , ma sempre pieno di tenerezza e coraggio. Nessuna opera di Raulino esprime questa idea in modo più eloquente di Teremos infância (Avremo un’infanzia, 1974), film che alterna la testimonianza di un immigrato del nord-est di San Paolo, Arnulfo da Silva Fenômeno, alle immagini di due bambini per strada . Mentre Arnulfo, lui stesso in una situazione di estrema povertà, racconta la sua storia e riflette lucidamente sull’importanza dell’infanzia, Raulino ci mostra i due bambini che assistono a questa testimonianza realizzando su di loro una sorta di “studio fotografico”. Come negli altri film del regista, Teremos infância rivela il suo gusto per le costruzioni musicali frammentate e disomogenee, dove testimonianze, istantanee fotografiche, canzoni e immagini urbane si combinano liberamente in tutta poesia grazie a un lavoro di montaggio intellettuale e intuitivo.
Il lavoro con il suono e la musica ha sempre avuto un ruolo preponderante nel cinema di Raulino: i suoi film non hanno mai smesso di rendere giustizia alla ricchezza sonora del cinema della “boca do lixo”, un cinema che ha saputo valorizzare al meglio in chiave creativa modo i limiti tecnici della produzione – pensiamo ad esempio all’amico e socio Ozualdo Candeias –, reinventando la funzione del suono diretto e del doppiaggio, sfruttando i rumori e, in particolare, sottraendo definitivamente la musica alla sua funzione di supporto per integrarla nella narrazione , sia sotto forma di commento, sia di evocazione di una determinata scena culturale, o infine per il semplice piacere di farlo ascoltare. Per quanto riguarda Raulino, la conclusione ovvia a cui si arriva guardando qualsiasi suo cortometraggio è che non solo “usano” molto bene la colonna sonora, ma sono anche… uguali – nella dinamica del montaggio, nell’alternanza di inquadrature lunghe e veloci, fisse e panoramiche – profondamente musicali nella loro struttura.
Notevole, in particolare, è l’uso che i film di Aloysio Raulino fanno del silenzio. Astuto, Raulino sa bene che il modo migliore per far sentire il silenzio non è l’assenza totale di suono (come nei film muti), né l’abuso degli effetti sonori (come in molti film sperimentali contemporanei), ma l’uso espressivo del contrasto. È così che ricorrono a questa figura retorica alcuni dei suoi migliori cortometraggi: fanno un uso senza riserve dei rumori e della musica e, attraverso la semplice sottrazione del suono nei momenti strategici, ci fanno vedere con maggiore profondità ciò che, inaspettato, pochi secondi prima , potrebbe sembrare insignificante. vedere. È il caso di Porto de Santos, film in cui il suono gioca con l’immagine in un gioco meravigliosamente calcolato di connessioni e separazioni, così come di Lacrimosa, una sorta di sinfonia novecentesca al contrario, quando l’auto stessa taglia addirittura l’autostrada come l’arco di uno strumento.
Quando si tratta della musica stessa, i film di Raulino utilizzano una vasta gamma di opzioni e significati. Per non parlare di Noites paraguaias, sulle avventure di un gruppo di musicisti paraguaiani in Brasile, À Morte de um Poeta (La morte di un poeta, 1981), che ricorda la sepoltura del grande compositore di samba Cartola e Arrasta a bandeira colorida (Sentieri la bandiera colorata, 1970), sul Carnevale di strada di San Paolo, tutti i suoi film coltivano un intenso dialogo con la musica, sia su un registro più impegnato e militante, come in Lacrimosa, sia per cullare i sogni e le fantasie degli uomini comuni come a O tigre e a gazela, Porto de Santos e soprattutto Jardim Nova Bahia.
Jardim Nova Bahia
Jardim Nova Bahia è il più famoso dei film diretti da Raulino, quello che ha ricevuto maggiore attenzione da parte della critica e degli intellettuali brasiliani grazie a un importante saggio che Jean-Claude Bernardet gli ha dedicato nel libro Cinestas e Imagens do Povo (Cineasti e immagini della gente, 1985). Il cortometraggio è incentrato sul ritratto di un immigrato del nord-est, Deutrudes Carlos da Rocha, che pulisce le auto per le strade di San Paolo e alle cui mani Raulino affida la macchina fotografica affinché lui stesso possa riprendere alcune delle immagini del film. Nel suo saggio su Jardim Nova Bahia, Jean-Claude Bernardet vede nel gesto di Raulino un punto di svolta significativo nella storia del documentario brasiliano, nella misura in cui il film delinea una reazione alla strategia del documentario classico, fondamentalmente educativa e sociologica, che sarebbe stato predominante nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta: mettere la macchina da presa nelle mani del personaggio filmato significava, almeno sul piano simbolico, un tentativo di sovvertire il vecchio schema di potere che considerava il popolo come un semplice “oggetto” del documentarista o, nella migliore delle ipotesi, una proiezione delle sue contraddizioni e dei suoi desideri personali.
L’importanza di questo studio unita alla mancanza di nuovi testi critici sull’argomento hanno portato Jardim Nova Bahia a rimanere troppo dipendente dall’analisi di Bernardet, lei stessa di forte inclinazione sociologica. Sopravvalutando l’importanza del gesto di prestare la macchina da presa al personaggio dell’intervista, Bernardet ha relegato in secondo piano la libertà poetica e la forza “costruttiva” che hanno sempre caratterizzato lo stile di Raulino, e la sua esplicita volontà di catturare, in questo film, il lato fantasioso, romantico e narrativo del suo personaggio, anche se questo lo ha costretto a intervenire violentemente nell’immagine. È quello che succede, ad esempio, quando la musica dei Beatles (Strawberry Fields For Ever, eseguita in modo molto simbolico da Richie Havens) irrompe in modo del tutto inaspettato, mentre Deutrudes e i suoi amici passeggiano lungo la spiaggia di Santos, in una delle sequenze più malinconiche e commoventi del cinema di Raulino. Raulino ha incorporato nella forma stessa dei suoi film l’idea che ogni rivoluzione politica non è possibile senza la comprensione intima del piacere e del sogno, per questo l’attenzione che dedica ai più poveri va di pari passo con la rappresentazione delle loro delusioni e le loro fantasie. Come aveva già notato lo stesso Bernardet, “Raulino è interessato al lavoratore in quanto non lavoratore”, il che gli permette di raggiungere una libertà e una profondità molto rare nella rappresentazione della realtà brasiliana.
Come è già stato osservato più volte, l’apertura al dialogo con la cultura popolare è una delle caratteristiche più importanti della produzione brasiliana dell’epoca, siano essi i cosiddetti film marginali o anche le estensioni del Cinema Novo. Tuttavia, l’opera di Raulino raccoglierà i frutti di questo approccio solo negli anni ’80, con Noites paraguaias, un film che riesce, tra le altre cose, a farci pensare a registi diversi come Ozu, Ruiz, Godard o Buñuel.
Nel complesso, Noites paraguaias è un bel film dominato da un’intensa energia creativa, con passaggi più o meno riusciti ma che, in ogni momento, non cessa di suscitare il più vivo interesse dello spettatore. Il film riprende un tema molto caro a Raulino e al cinema brasiliano (Zézero, Liliam M, O baiano fantasma, O homem que virou suco4): quello dell’immigrazione, qui nella forma dell’esodo dalla campagna alla città. In Noites paraguaias, un immigrato paraguaiano parte per San Paolo in cerca di migliori condizioni di vita, il che funge da pretesto per una serie di incontri documentaristici, divagazioni surreali e teatrali. All’inizio predomina un registro placido e ritmato, il gusto per i campi lunghi, la riflessione sullo scorrere del tempo e sui cicli della vita. Fino a quando la divertente apparizione di Claudio Mamberti nei panni di un turista brasiliano non segnò un cambiamento nello stile iniziale e annunciò un nuovo filone, parodico e molto più burlesco, per affrontare la realtà del Paese. Come accade con registi diversi come José Agrippino, Joaquim Pedro de Andrade, Fernando Coni Campos, Waldir Onofre o Carlos Prates Correia, solo l’esagerazione teatrale sembra essere in grado di tradurre la realtà dell’immaginario brasiliano, popolato da ridicole esplosioni di nazionalismo ed euforia. o manie di grandezza. Il film mette in risalto l’intelligenza delle soluzioni narrative di Raulino, l’immediatezza della regia, ma anche la ricchezza delle scene teatrali, che attirano sempre l’attenzione con lo spirito di libertà e invenzione che le ispira.
In verità, la polifonia e l’eterogeneità dell’unico lungometraggio diretto da Raulino sorprende solo nella misura in cui egli possa essere considerato un comune regista di cortometraggi e non l’inquieto creatore che è sempre stato, sempre preoccupato di trasmettere un’idea cinematografica accanto a un idea politica. Soffermandosi sul registro narrativo e sui ritrovamenti burleschi del film, il contrasto è reale con la semplicità delle esperienze precedenti, ma può essere inteso come uno sviluppo naturale della sua propensione al rischio e alla ricerca, anche se in questo caso significa penetrare in un terreno già sfruttati dal cinema brasiliano, come il dialogo con Chanchada, un genere di cinema popolare, comico e spesso sbarazzino. In ogni caso, Noites paraguaias suscita il rammarico che il suo regista non abbia saputo produrre altre opere con lo stesso spirito sovversivo che è sempre stato quello di Raulino: fotografo geniale, cineasta impegnato e attore nato.
Un’altra lezione
Forse per molto tempo dovremo imparare un’altra lezione dal suo cinema-essere il più importante: oltre al merito dei suoi film, la storia di Raulino, regista e fotografo, ci lascia la testimonianza di una preoccupazione costante nei confronti dei diversi modi di fare cinema. Pochi artisti, nella storia del cinema brasiliano, hanno saputo sperimentare e partecipare alla costruzione di così tante pratiche diverse per realizzare film, per mobilitare risorse tecniche, per inventare modalità che consentano l’organizzazione in gruppi o l’andare d’accordo con le persone riprese.
Per ognuno dei film da lui realizzati e per buona parte di quelli da lui fotografati, proponeva, accanto a un insieme di immagini e suoni, una dinamica produttiva nella quale venivano variamente coinvolte le rispettive squadre, oltre alle attrezzature cinematografiche, i tempi di lavoro e, soprattutto, i personaggi filmati. Raulino è più che un inventore di forme. La sua vita e la sua carriera di regista e fotografo – come quella di ogni uomo d’avanguardia che si rispetti – testimoniano la pluralità di scelte possibili per lavorare, per fare film, insomma, per vivere il cinema.
João Dumans