Un tumore al pancreas l’ha portato via troppo presto. Il cinema ha perso un regista elegante, capace di esaltare semplicità e sobrietà.
Figlio di emigrati italiani. Voleva fare l’architetto Andrea Tonacci, capì subito che la sua strada era ben altra, interruppe gli studi, girò i suoi primi cortometraggi negli anni sessanta, fino ad insegnare regia cinematografica in Spagna e in Brasile, quest’ultimo il paese che l’ha adottato. Passato poi ai lungometraggi, sperimentò tecniche di ripresa e di montaggio molto innovative.
A partire da Olho por olho (1966), il suo primo cortometraggio, che racconta la noia dei giovani in epoca dittatoriale e il loro desiderio di movimento, giustizia, rivolta, attraverso una telecamera incorporata in un’auto che cerca di inseguire la bellezza di un volto; fino al suo ultimo film Jà visto Jamais visto (2014), una sinfonia mnemonica basata su archivi visivi e sonori di famiglia, viaggi, progetti interrotti, film incompiuti.
Un percorso di vita lungo più di quarant’anni; attraverso l’esplosivo film-manifesto del “Cinema Marginale” Bang Bang (1970) in cui, proseguendo gli pregiudizi del precedente mediometraggio Blablablá (1968), nella modalità del burlesque, della “farsa” anarchica e dei lunghi piani sequenza, il regista crea una critica feroce al potere politico dominante; e l’essenziale Serras da Desordem (2006) , un film sommario, un film a lungo termine, che utilizza archivi, immagini originali su pellicola, su video, e in cui il regista descrive e critica il controllo dell’uomo bianco sulle civiltà indigene, la loro massacro di villaggi, deforestazione, saccheggio e sfruttamento delle risorse naturali; e questo, attraverso il percorso di Carapirú, un indio della tribù Awá-Guajá, che dopo aver visto la sua tribù massacrata dai proprietari terrieri, riuscì a fuggire, attraversò il Brasile per dieci anni prima di essere riconosciuto da suo figlio rapito durante il suddetto massacro…
Andrea Tonacci, un pensiero di catastrofe
In tutta la sua carriera cinematografica Andrea Tonacci ha messo in in gioco quello che il filosofo Walter Benjamin chiamava nelle sue famose tesi sulla filosofia della storia, un pensiero di catastrofe. La catastrofe intesa come una situazione critica di pericolo in cui il senso della storia viene leso e un’etica del pensiero resistente che porta a un pensiero non storicista della storia dominato dallo “Stato di eccezione”.
I film di Andrea Tonacci si basano su quella che potremmo definire una “teoria dell’attenzione”, e fungono da dispositivi di risveglio cognitivo. Si impegnano in una relazione, in un uso unico della tecnica. Questa, la macchina fotografica, è vista come una possibilità di esplorare, aggiornare, sviluppare, e non confiscare, le potenzialità e le virtualità della natura; un’operazione di decentramento antropologico che mette in discussione le categorie di identità e alterità, favorisce la ridefinizione delle condizioni del vivere comune, e la rivelazione di questi “luoghi segreti” dove l’esistenza è finalmente pienamente visibile, per sentirsi, come altrimenti , nel corpo , come nel tempo e nello spazio. Andrea Tonacci, ovvero il cinema come desiderio ultimo di disordine e di infinito. Peccato che se ne andato troppo presto, in un 16 dicembre del 2016.