È chiaro che ci sono molti modi per essere muti. Il mutismo degli animali Disney oscilla, varia a seconda dei personaggi che li circondano.
L’ampiezza della filmografia Disney rende necessario restringere il corpus studiato solo ad una parte di questa produzione; se non sono necessariamente i più apprezzati, i cosiddetti film classici (“Walt Disney Animated official canon”) hanno il vantaggio di costituire un insieme coerente, a priori il più rappresentativo dei canoni estetici e ideologici difesi dall’azienda.
Il posto assegnato all’animale oscilla enormemente in questa produzione, che alterna fasi che mettono al centro dell’attenzione l’uomo o l’animale, definendo via via i contorni di un’umanità e un’animalità intercambiabili. Presente fin dall’inizio, questa vaghezza ontologica ha costantemente trovato nuove forme di espressione. Il duo Plutone-Dingo dei cortometraggi è la prima e più visibile materializzazione; questa incomprensibile coppia di due cani, di cui uno dotato di parola e l’altro no, ha determinato le prime condizioni da soddisfare per esprimersi: abbigliamento e movimento su due zampe. Poco dopo, il primo lungometraggio, Biancaneve e i sette nani (David Hand, 1937), determinò immediatamente il modello tipico del rapporto emblematico tra la principessa e l’animale, modello rimasto a lungo autorevole. Le configurazioni sono molteplici e rispondono a logiche diverse, le gerarchie tra animale e umano (variabili a seconda dell’età e del sesso), ma anche tra animali, si rivelano attraverso il filtro che costituisce la legge (o il dono) della parola.
Sulla scia di Biancaneve, le giovani eroine Disney, graziose e fragili come fiori, muovono tutti gli animali selvatici, che sono pronti ad accompagnare ogni loro movimento. È questo codice che mette in risalto il tradizionale ammiccamento meta-discorsivo dell’ultimo classico, Moana, La leggenda della fine del mondo (Ron Clements e John Musker, 2016) quando il semidio Maui esclama: “Se indossi un vestito e cammina con un animale divertente, allora sei una principessa. » Questa definizione, proposta in modo piatto e scherzoso da un personaggio privo di tatto, è rivelatrice del posto assegnato all’animale in questo rapporto emblematico: come l’abito, l’animale è un accessorio, naturalmente inserito nella uno spazio umano. In questo universo, la voce è uno degli attributi più privilegiati delle principesse – Biancaneve, Aurora, Ariel – i principi si innamorano di loro ascoltandole cantare. Lei è un dono, che Aurore riceve da una fata nella sua culla e senza il quale Ariel non è più una persona agli occhi di Eric; la voce fa la persona. La natura praticamente divina di questo attributo giustificherebbe il fatto che gli animali non ne siano dotati. Da notare però l’eccezione costituita dagli amici marinai di Ariel (un caso a parte, poiché lei è solo parzialmente umana) e dai topi di Cenerentola, che godono del dono della parola per puro favoritismo – il topo appare vicino all’uomo per il semplice motivo che è con lei che tutto ha inizio: Topolino rappresenta il pari dell’Uomo, è la forma cartoon derivata dai divi muti. Questo tipo di film, chiamato “film delle principesse”, scandisce la filmografia classica e presenta una comunicazione a senso unico in cui l’uomo presume che l’animale capisca il suo linguaggio, senza cercare di comunicare con lui. Sembrerebbe che, in Disney, il rapporto con gli animali rifletta lo status del personaggio, come illustrano i casi di Megara (Hercules, Ron Clements e John Musker, 1997) che detesta gli animali, e di Jane (Tarzan, Chris Buck e Kevin Lima, 1999), naturalmente incapace di comunicare con loro, lasciando impassibili i simpatici animaletti che difficilmente gli porteranno il suo scialle, anzi, ironicamente, gli rubano i vestiti. Perché le principesse hanno questa naturale capacità di domare gli animali e di mantenere un rapporto speciale con gli uccelli in particolare: partecipano alla loro toilette, portano loro vestiti e oggetti, cantano con loro, insomma svolgono il ruolo delle donne di camera da letto.
Pertanto, questa mancanza di comunicazione con gli animali attesta che Jane e Megara non sono sicuramente principesse. Allo stesso modo, l’assenza del buffo maialino di Vaiana è significativa: per gran parte della storia, l’adorabile animaletto è sostituito da un pollo ingenuo, che non rappresenta in alcun modo il caratteristico aiutante della principessa Disney. Ciò conferma ciò che Vaiana si sforza di far capire a Maui: non è una principessa, è la figlia del capo! Per quanto sottile possa essere la sfumatura, è il rapporto con l’animale a sottolinearla. Così, addomesticati dalle principesse, gli animali si comportano poi come cani e mostrano i loro tratti caratteriali emblematici, gli stessi che si richiedono anche a un buon servitore: lealtà, discrezione, diligenza, obbedienza e sensibilità. Si scopre che questa relazione si estende a tutti i protagonisti umani il cui compagno è un animale muto; in questi film, l’addomesticamento spontaneo dell’animale selvatico lo rende un servitore come tutti gli altri – e da servitore a schiavo c’è forse un solo passo, che in gran parte viene compiuto in Dumbo (Ben Sharpsteen, 1941). Unico caso di vero mutismo tra gli animali parlanti, Dumbo è più di una figura pantomimica, è la rappresentazione dell’animale-macchina cartesiana: maltrattato e duramente deriso da tutti, uomini e animali, non gli vengono riconosciuti né sentimenti né intelligenza; il suo silenzio ne è l’espressione più palese. Questa idea si materializza sullo schermo sotto forma di pura ibridazione dell’elefante con il veicolo, una prima volta nella sequenza del sogno, poi, alla fine, in un ritaglio di giornale in cui vediamo aerei modellati sull’elefantino dalle grandi orecchie.
Dumbo ha diritto al “lieto fine” perché riesce, simulando la macchina, a dimostrare il suo valore, che non è altro che un valore di mercato: si guadagna il diritto a vivere dignitosamente portando denaro. Dumbo incarna l’avvento di una forma che tormenta la produzione Disney, quella dell’animale-montagna, che ritroviamo ad esempio in Bernard e Bianca (Wolfgang Reitherman, Art Stevens e John Lounsbery, 1977) dove prende il nome la libellula su cui cavalcano i topi una marca di motori o in Basil, Detective privato (Ron Clements, Burny Mattinson, David Michener e John Musker, 1986), dove comunicano solo i topi (e i ratti), gli altri animali sono muti e usati come cavalcature: il cane Toby e la gatta Felicia obbediscono ai loro padroni topo/ratto come se fossero esseri umani, riconoscendo così implicitamente la superiorità conferita dal trio vestiti/parole/movimenti sugli arti inferiori.
L’assimilazione degli animali a un oggetto partecipa allo stesso processo di riduzione di più animali allo stesso comportamento, che non è esclusivo dei film sulle principesse: come abbiamo detto, c’è Pua le wild pig di Moana, ma c’è anche il Tirannosauro di Robinson (Stephen J. Anderson, 2007), il cavallo Maximus di Rapunzel (Byron Howard e Nathan Greno, 2010), i coccodrilli che abbaiano di Kuzco (Mark Dindal, 2000), la creatura ibrida formata da Meeko e Percy bloccati in un baule in Pocahontas: An Indian Legend (Marc Gabriel e Éric Goldberg, 1995)… Si comportano tutti come cani, perché, parallelamente alla figura del servo usata nei film in cui gli animali non parlano, gli altri Il grande cliché sfruttato dalla Disney è quello del comportamento canino. È anche chiaro che i cani stanno colonizzando lo spazio Disney: sotto i riflettori nella maggior parte dei film in cui gli animali hanno la precedenza sugli esseri umani, le loro caratteristiche hanno permeato il comportamento e la personalità di altri compagni animali fino al punto di negare le loro specificità. Il carattere canino, che viene genericamente applicato ad animali non appartenenti a questa razza, viene però declinato in molteplici varianti quando si tratta di cani veri, fino ai 101 dalmata (Clyde Geronimi, Wolfgang Reitherman e Hamilton Luske, 1961), che sono infatti 101 individui, non la ripresa, in forme diverse, dello stesso carattere. I film di questa categoria raffigurano società animali organizzate in base alla presenza dell’uomo, i cui membri utilizzano un linguaggio proprio e che attraversa le diverse specie. Sebbene gli animali comprendano il linguaggio umano, non lo condividono; la comunicazione avviene, come meglio può, solo grazie all’ingegno gestuale e intellettuale degli animali (eredità ancora percepibile della pantomima). Il linguaggio gioca un ruolo chiave nel definire l’individualità di questa società, fatta di animali incompresi, ma dotati di conoscenze che sfuggono all’uomo.
Il tema della maggior parte di questi film è l’amicizia e il mutuo aiuto tra le specie. Gli eroi animali sono moralmente superiori agli esseri umani, il che provoca la dissoluzione del confine tra umanità e animalità: quando deludono i personaggi umani che li affrontano e si comportano come animali, gli animali diventano garanti di valori che sono unici per l’umanità come generosità o gentilezza. Crudelia de Mon illustra al meglio questa idea, ovviamente con il suo comportamento, ma anche con il suo aspetto: ricoperta di pelliccia dagli stivali al cappello, Crudelia è più vicina alla bestia dei gentili dalmati con il loro pelo liscio e liscio. McLeach di Bernard e Bianca testimonia la stessa bestialità o, meglio, disumanità: la sua prima apparizione sullo schermo è quella del suo fucile, che consegna a Cody come un’estensione delle sue mani. D’altra parte, Bambi (David D. Hand, 1942) è un caso speciale in quanto presenta, allo stesso tempo, la superiorità morale dell’animale sull’uomo e la sua inferiorità ontologica, la sua vulnerabilità. La foresta è rappresentata come un universo chiuso dove tutte le specie comunicano fino alla comunione: la fauna e la flora sono colte in un rapporto sineddochico dove l’animalità è univoca, uniforme. La comunione tra le specie nega l’individualità dei rappresentanti della foresta, considerati come un tutto omogeneo che testimonia la stessa commovente ingenuità. Questo tipo di configurazione appare anche in The Farm Rebels (Will Finn e John Sanford, 2004) che raffigura il microcosmo della fattoria più che gli animali. Questi vengono rappresentati secondo gli stereotipi assegnati loro dagli esseri umani: le galline sono stupide e loquaci, i cavalli orgogliosi e testardi, le mucche intelligenti e testarde. L’insuccesso riscontrato da questo film si spiega in parte con questa rappresentazione: l’animale viene presentato in personaggi troppo evidenti, le personalità vacillano. Questa individualità che maschera la collettività è all’opera in un’altra forma ne Il libro della giungla (Wolfgang Reitherman, 1967) dove la maggior parte dei nomi derivano dal termine generico che designa l’animale in hindi: per esempio, “Bagheera” significa “pantera nera/tigre”. Che parlino o meno, anche gli animali hanno bisogno di una personalità per esprimersi veramente.
Tarzan è, inoltre, l’esempio di una categoria di film particolarmente sorprendente, quella che presenta personaggi ibridi, che si evolvono tra due mondi. Questo film realizza l’ovvio parallelismo tra società animali e società umane, sia nell’immagine che nella storia: la canzone di Phil Collins, Two Worlds, schematizza il progetto del film, spiegato fin dall’inizio con un montaggio alternato della famiglia di Tarzan e quello dei gorilla, presentando subito l’“uomo-scimmia” come l’ibridazione tra umanità e animalità. Notiamo però una cosa: l’adattamento Disney ha ritenuto opportuno lasciare da parte la spiegazione del linguaggio condiviso da Tarzan e dai gorilla, mangani, un’invenzione di Edgar Rice Burroughs[6] che designa sia la razza della famiglia adottiva che quella giovane essere umano e il linguaggio che usano. Ne consegue che la comprensione delle lingue parlate nel film è altalenante: lo spettatore nota che i grandi animali (gorilla ed elefanti) condividono una lingua con Tarzan, che gli uccelli e i cattivi non parlano e che le scimmie più piccole parlano espresso in una lingua, per lui, incomprensibile. La comprensione varia a seconda della presenza o assenza di elementi esterni al microcosmo della signoria di Tarzan, vale a dire principalmente di Jane – preferiamo comprendere l’umano piuttosto che l’animale, le cui parole rimarranno un mistero.
L’epiteto del titolo dell’opera originale è il secondo elemento sradicato da Disney, ma questa volontaria omissione non riesce a mascherare il fatto che Tarzan è effettivamente il Signore della Giungla: grazie alla sua forza fisica e alla sua intelligenza , e molto prima che il gorilla Kerchak muoia, sappiamo chi è il vero leader. Ma Tarzan è soprattutto l’unico personaggio a parlare e comprendere entrambe le lingue, entrambi i mondi; praticamente in modo innato, la sua superiorità è acquisita attraverso la sua capacità di parlare. Questo è ciò che accomuna questi film, che presentano un linguaggio comune, glorificando una forma fusione di umanità e animalità. Tuttavia, tutti questi ibridi passeranno attraverso lo specchio e abbracceranno la loro umanità – anche Tarzan che, come Lord e attraverso la coppia che forma con Jane, finisce per assumere pienamente la sua umanità. Assistiamo alla stessa inversione di tendenza in un film come La Sirenetta (Ron Clements e John Musker, 1989) che raffigura una creatura ibrida per natura, capace di comunicare sia con gli esseri umani che con gli animali legati al mare, sposando la dualità del proprio corpo. La principessa acquatica, però, capisce il pesce ma non Max, il cane del suo principe terrestre – che non è dotato di parola e, ovviamente, apprezza spontaneamente la principessa… Nel mondo degli umani, l’animale torna ad essere la figura del compagno domestico ed è questo mondo che Ariel sceglie, abbandonando la sua parte di animalità al mare. Nel Libro della Giungla, Mowgli cresce nella natura, come Tarzan, ed esita tra l’umanità e l’animalità: proprio come il Re Scimmia vuole diventare un. amico, Mowgli vuole essere successivamente un elefante, un orso o un avvoltoio. Capisce gli animali così come la ragazzina umana che segue alla fine della storia. Come Ariel, è l’umanità che sceglierà alla fine del suo viaggio. È interessante notare che i bambini nei film Disney vengono spesso presentati come soggetti ibridi, esseri che non hanno ancora raggiunto la fine della loro umanità e, quindi, mantengono con gli animali un legame molto più forte rispetto agli adulti. Questo legame tra il bambino e l’animale è esposto in modo molto esplicito in Peter Pan (Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske, 1953): la banda dei Ragazzi Perduti, proprio quelli che si rifiutano di crescere, costruiscono la propria identità su un animale costume. Ma è nel dittico composto da Bernard e Bianca (1977) e Bernard e Bianca nella terra dei canguri (1990) che la confusione è più evidente: solo i bambini, Penny come Cody, capiscono gli animali; gli adulti, buoni o cattivi, non hanno questa capacità – presupponendo che si perda con l’età.
Sia Bernard che Bianca sono film interessanti sotto più di un aspetto, perché non tutti gli animali hanno voce ed è difficile determinare le ragioni di queste scelte. Nonostante le difficoltà di classificazione che pongono, questi film illustrano riccamente i rapporti gerarchici tra gli animali, trasferiti dai rapporti che gli esseri umani hanno con i loro compagni muti, come dimostra la ricorrenza delle figure del servo e della macchina. Da un lato, come abbiamo visto, i due film presentano una serie di animali utilizzati come mezzi di trasporto: insetti, uccelli, scoiattoli volanti, rettili e perfino cinghiali, è compreso l’intero regno animale e il collegamento con la macchina è lì si manifestano al punto che la libellula Evinrude prende il nome dal motore di una barca. I topi mostrano pochissima compassione e grande orgoglio nel dominare gli altri animali (“Io sono il tuo padrone!”, “Più veloce, Evinrude!”), perché la cavalcatura di Bernard e Bianca è il vero animale: quello che si muove a quattro zampe , vestito sobriamente con piume, peli o squame, echeggiando il cartesianesimo e la dimensione utilitaristica dell’animale, qui giustificata dalla capacità di volare o muoversi rapidamente. In questo senso è logico che questo animale non abbia il diritto di parlare. Quasi a confermare la regola, gli albatros sono un’eccezione e vengono preservati dal silenzio, anzi viene loro offerto lo status di individui da un ingiustificato “cambio di attore” tra il primo e il secondo film – nonostante la quasi totalità di Orvil e suo fratello Wilbur. D’altro canto, si perpetua anche la figura del servo, in particolare attraverso il rapporto dei topi con gli insetti; Questi compongono il personale del ristorante, camerieri, cuochi e altri fattorini, in balia della buona volontà dei topi, della loro durezza e dell’indifferenza, che caratterizza anche Bernard, nonostante sia il più cortese dei topi. Questa figura si è diffusa in tutta la filmografia Disney, da Robin Hood (Wolfgang Reitherman, 1973) dove l’attendente di Lady Marianne è una gallina, a Oliver and Company (Georges Scribner, 1988) dove Georgette il barboncino (la figura della principessa, se ce n’è una) è circondato da uccelli che partecipano alla sua vestizione, passando per Peter Pan dove la confusione è totale: l’animale (ancora privo di parola) viene fatto balia dalla famiglia umana. I modelli uomo-animale sono modellati sulle relazioni tra animali dominanti (parlanti) e animali dominati (il più delle volte muti); il trasferimento di queste relazioni al mondo animale getta nuova luce sulle relazioni di potere in atto nei film incentrati sull’uomo.
Robin Hood è il primo film Disney a presentare un cast completo di animali, senza un solo essere umano che interferisca con la sua omogeneità: il modello su cui si fonda questa società animale non è più presente sullo schermo. Questa grande novità viene evidenziata anche nei titoli di coda dove la presentazione dei personaggi prevede il loro nome seguito dal nome della specie che rappresentano. Gli animali svolgono funzioni sociali in linea con le loro capacità: quelli dalla pelle coriacea costituiscono la guardia, i feroci predatori sono i cattivi, le vittime sono prede particolarmente indifese e il salvatore non è altro che un animale ibrido, la volpe: sia preda che predatore , il suo stesso nome è ambiguo. Questa configurazione rimarrà impressa e viene utilizzata anche in Chicken Little (Mark Dindal, 2005). L’anno 2016, però, ha abrogato questo determinismo, facendo di un piccolissimo coniglio una grande poliziotta. Come Bambi, Zootopia (Byron Howard, Rich Moore e Jared Bush, 2016) presenta l’animalità isolatamente, qui, in un mondo in cui tutte le specie vivono in armonia, prede e predatori che hanno messo da parte le loro differenze, estendendo così la prospettiva utilitaristica all’opera in Robin Hood. Ma, a differenza del suo antenato del 1941, Zootopia esibisce un’animalità particolarmente plurale, illustrata dalle varie installazioni urbane dedicate a soddisfare i bisogni di tutti.
In questo universo utopico, il dono della parola è il risultato del progresso del pensiero: smettere di mangiarsi sembra essere la condizione necessaria per vivere insieme. Questa nuova filosofia farebbe quasi dimenticare allo spettatore che Zootropolis rappresenta solo i mammiferi… Questo film mette ancora una volta in discussione il confine tra umanità e animalità descrivendo il ritorno involontario allo stato selvatico, che non consente più ai personaggi di comunicare o camminare su due gambe, o tollerare di indossare indumenti. Se l’esplorazione delle diverse forme di mutismo ha permesso di evidenziare una costante, è questa: come suggeriscono i film sulla metamorfosi, la condizione animale è un brutto destino di cui bisogna liberarsi[ 10]. Il ritorno all’umanità è sistematico, anche in un film come Hercules dove la dualità in gioco è quella del mortale e del divino. Tuttavia, poiché esiste indubbiamente un’eccezione alla regola, c’è Fratello Orso (Aaron Blaise e Robert Walker, 2003) a radicalizzare la questione di Tarzan mostrando che l’animale è un essere umano[11]come gli altri… Quindi, diritto o dono della parola? Tra la figura del fratello e quella del servo, umanità e animalità si mescolano e si distinguono secondo le parole pronunciate e i linguaggi insospettabili. E come mostra Zootropolis, il più muto degli animali resta quello che dimentichiamo.
Luisa Van Brabant
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